domenica 29 giugno 2008

IL VECCHIO ED IL CANALE


“Il giornale con i programmi della televisione, lo prendi te?” “Si, ci passo dopo.”
Apre il lucchetto della bicicletta, legata alla rastrelliera sotto casa, e si avvia fuori dal cortile condominiale, spingendola a piedi.
Venduto il bar di viale Petrarca, lui e sua moglie avevano investito i soldi per comprare questo appartamento a Viareggio, dove venivano in villeggiatura da giovani. Un condominio in una strada tranquilla, proprio a ridosso della pineta, con le finestre della camera di dietro che affacciano sul tappeto ombroso. Si erano trasferiti definitivamente da Firenze, lasciando la casa tenuta in affitto per quasi trenta anni. All’inizio si trovarono un po’ spaesati, anche se sua moglie si era ambientata meglio. E’ una costante della personalità femminile, quella di creare rapidamente una rete di contatti, di conoscenze, e di relazioni, anche in un ambiente del tutto nuovo.
Così Elvira, sua moglie, scoprì che la tabaccaia vicino casa, era la figlia del vecchio padrone del bagno dove prendevano l’ombrellone. “ Ti ricordi, era una bambina, e vedessi che donna s’è fatta…..”
Poi la famiglia del fornaio, che pare avessero già conosciuto, come il medico curante che venne loro assegnato, figlio della signora per anni vicina di ombrellone, dal lato della corda divisoria.
Con il passare dei mesi lei si era messa a produrre marmellate e confetture domestiche, che riponeva ordinatamente negli scaffali del garage, non prima di aver apposto su ogni vasetto la dicitura identificativa a futura memoria. Quasi una rassegna di premi letterari : “Melanzane sottolio -giugno 2001”;”Pelati- settembre 2003”; “Marmellata di fichi- agosto 2005”.
Elvira aveva compiuto settantanni. Dopo il grande spavento per quella operazione di cinque anni fa, si era rimessa, ed il trasferimento da Firenze a Viareggio aveva avuto un effetto benefico sulla sua salute. Telefonava alle amiche di Firenze, preparando con cura la sedia vicino al telefono, e programmando le telefonate con un piano settimanale. Si gustava queste chiaccherate, che quasi sempre indagavano su episodi di anni passati, sui vecchi clienti di quando avevano il bar di viale Petrarca “ …… quei due giovani che lo hanno preso adesso non ci sanno proprio fare…..”, “…certo quando con voi, era tutto un altro locale….”. Seguivano gli inviti: “Venite a trovarci una di queste domeniche. Io e Piero siamo sempre qua soli; si mangia insieme e poi si fa una passeggiata al mare, che si sta bene anche d’inverno”. Elvira era serena e soddisfatta di aver lasciato il bar e Firenze.
Piero, pantaloni chiari, gilet a V blu sopra la camicia a scacchi, aveva raggiunto in bicicletta il canale che costeggia la stradone dopo l’uscita autostradale.
Era luglio, una qualsiasi metà mattina di luglio, con il cielo bianco.
Poggiò la bicicletta dietro il cartellone pubblicitario senza chiuderla e si diresse verso il parapetto del canale. Il rigolo d’acqua si faceva strada tra due ali di erba e arbusti marroni, e procedeva con una lentezza esasperante, da sembrare quasi bloccato. Dall’altro lato del canale la fila dei condomìni costruiti nei primi anni settanta. Voltandosi a destra in lontananza Piero poteva scorgere la linea bianca del cielo, ed oltre immaginare il mare. Tornando a guardare davanti vedeva ancora il canale, e quella insulsa mattina di luglio da ammazzare prima di pranzo. Fissava di nuovo il greto del canale e liberava la mente. Quella distanza dalla spiaggia assolata e brulicante gli permetteva di pensare a sé, a quegli scampoli di vita futura che lo attendevano.
Tutti gli anni passati a lavorare al bar a Firenze, ad aprire la seracinesca nel gelo delle sei di mattina, ad aspettare il primo pensionato che chiedeva il caffè in una assolato sabato pomeriggio. Poi le discussioni con i fornitori, che una volta lo trascinarono anche in Tribunale, e lui si fece il sangue amaro.
Quella distanza dalla spiaggia, cinquecento metri, più o meno, quella voglia di starsene comunque in periferia, di guardare le cose da lontano, che suo cognato sempre gli rinfacciava. Tutto questo ora, per fortuna, aveva anche un nome. Un nome per questa specie di malattia senza medicine nè ospedali, un paravento, un nascondiglio per la sua voglia di starsene da solo.
“Piero è invecchiato. Da quando ha lasciato il lavoro non si riconosce. Non ha voglia di fare niente, di vedere gli amici di Firenze, né tantomeno di farsene di nuovi qui al mare”.
Aveva ascoltato per caso questo sfogo di sua moglie con il fratello di lei, durante una telefonata.
Da quel giorno Piero si sentì arruolato a tutti gli effetti in un nuovo esercito, di cui come tutti aveva sentito parlare. Un esercito numeroso, ma silenzioso, ingombrante ed invisibile, sgradevole e commovente. Un plotone in marcia verso una battaglia persa, tra le gite a Rimini organizzate dal Comune, ed i pomeriggi nella sala di attesa del medico di famiglia. Sempre in anticipo per la cena, con il giornale sportivo già letto e la telefonata della figlia sposata con uno né brutto né bello che lavora alle Poste.
Non che ci tenesse a diventare un alfiere di questa milizia, come quei pensionati tirati a lucido che non perdono una serata di ballo liscio, e si iscrivono alla Università della terza età. Piero sarebbe stato un soldato semplice, un anziano qualsiasi, neppure troppo vecchio. Per uno come lui, sempre prudente nelle scelte, meticoloso e costante nel lavoro al bar, la vecchiaia non era poi una gran rivoluzione. Certo però qualcosa stava cambiando nella sua testa, ancor prima che nel fisico.
Quei pomeriggi lunghi da attraversare in una Viareggio mai veramente amata, non erano facili da sopportare, e non perché fossero noiosi. La noia a Piero non faceva paura, l’aveva conosciuta bene nelle giornate infinite al lavoro, durante le settimane tutte uguali a preparare caffè, e servire gelati.
Adesso questi pomeriggi in riva al canale viareggino, non conducevano a nulla. Si alimentavano di ore ed ore senza direzione, senza un traguardo, neppure il più banale del mondo.
Piero seguiva con lo sguardo l’acqua gialla del fosso. Quell’acqua gialla in qualche modo sarebbe finita nel mare, dopo pochi minuti quel rigagnolo motoso si sarebbe sciolto nell’acqua e nel sale di mare.
Sarà stato il 52, o forse l’anno prima.
Lui aveva diciassette anni ed era venuto per la prima volta al mare per una settimana intera d’agosto. Era ospite di Gino, un ragazzo che abitava a Firenze nel loro condominio. La mamma di Gino insegnava al liceo, e grazie al suo stipendio ed a quello del marito ragioniere in una ditta edile, già dall’anno prima si erano potuti permettere la casa in affitto a Viareggio.
Piero li aveva raggiunti in treno la seconda settimana, partendo da solo da Santa Maria Novella.
Lei era di Roma.
Quel suo accento, le parole buffe e strane, le strade, i nomi delle piazze di Roma, partivano dalla sua bocca ed arrivavano precise nella pancia tesa di Piero. Era come se lei, venuta da un altro mondo, avesse il potere di farlo eccitare non solo con la linea netta dei seni, o con la forma aggraziata dei piedi, ma anche con quella parlata sciatta, a volte greve, che produceva in lui un insistente formicolio in mezzo alle gambe.
I genitori di Gino erano venuti a prenderlo alla stazione di Viareggio, sarà stato mezzogiorno, e lo portarono subito a prendere un’aranciata. Dalle bollicine fredde del bicchiere ai manici infuocati dello sdraio con il tessuto a strisce. Lui e Gino stavano a pancia in giù con la testa all’ombra e la schiena in quel piacevole inferno di rena.
Come andò adesso non si ricordava, o meglio non rammentava i passaggi, l’ordine degli eventi, la connessione causale, in pratica aveva dimenticato tutto quello che è inutile.
Aveva chiaro in testa l’angolo della strada con dietro la pineta, il cartellone con la pubblicità del circo, ed un cassonetto dei rifiuti.
Lei era lì, era forse la seconda sera. Si, ci deve essere stata anche una prima sera quando si erano conosciuti; non ricordava i dettagli, ma il senso di gioia inquieta e urgente che lo accompagnò dentro il letto a castello della piccola e soffocante cameretta dove dormiva anche Gino.
Lei era lì, con le spalle abbronzate e i sandali leggeri da signorina ai piedi, per lui superflue conferme del suo potere regale.
Piero era come entrato in un tunnel, in una stanza cieca dove lei aveva il dominio assoluto. Un dominio fatto del sudore perlato nella piega del petto, di un odore come di salato, di impercettibile peluria bionda sulle gambe, di labbra, di orecchi nel labirinto dei capelli.
Tutto a pochi centimetri da lui.
Dolcissima, ma pur sempre una prigione, dalla quale solo per un pomeriggio Piero riuscì ad evadere.
Con Gino andarono alla pista dei GoKart in pineta, e si bevvero insieme due chinotti e quelle ore tra risate e colpi alla schiena, senza pensare proprio a nulla.
Ma proprio quella sera, dopo cena, l’angolo della strada ed il cartellone del circo lo aspettavano implacabili. Dalla finestra dell’appartamento di Gino osservava quel punto, e quasi non sarebbe sceso, avrebbe voluto scappare. Per un attimo si voltò verso il piccolo tinello con la tavola ancora apparecchiata, sperando che il babbo di Gino in canottiera ordinasse a loro ragazzi di restare in casa.
Ma nessun ordine marziale arrivò, e Gino già lo precedeva nella luce gialla delle scale condominiali, dove Piero lo seguì con il cuore in gola e strani brividi di freddo sulle spalle.
Lei era lì, vicino al cartellone del circo. Furono pochi passi dentro la pineta e tutto finì in fretta. Lei ora stava già ridendo con le mani sollevate ed i polsi piegati, per non far colare il liquido. Sorrideva tranquilla, non gli disse che lo amava, gli chiese solo se aveva un fazzoletto. Piero era come intorpidito, tutta la tensione enorme che si era portato dentro, era uscita partorendo quel misero liquido dall’ odore pungente.
E mentre lui stava progettando un futuro dal nome “domani pomeriggio”, i contorni del tempo si annacquarono improvvisamente, come se qualcuno avesse rovesciato la palla di vetro impedendogli di vedere oltre.
Piero voltò piano la testa e la linea azzurra del mare scomparve; mise di nuovo a fuoco l’acqua torba del canale, che per quella mattina non aveva altro da dirgli.
Sollevò i gomiti dal parapetto e si voltò per recuperare la bicicletta.
Mentre si preparava a partire alzò gli occhi e vide di fronte il cartellone pubblicitario. Era quello di un circo.


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lunedì 28 gennaio 2008

STORIA DI SILVANA IN FRANCESE

Scrivere mi ha già riservato molte avventure della mente, che mai avrei immaginato. Una delle più curiose e piacevoli è quella di veder tradotti in una lingua straniera alcuni passi del mio nuovo racconto. E' andata così.
Ho una cara amica parigina, Céline Le Berre, laureata in letteratura italiana con una tesi su Dino Buzzati, che parla molto bene la nostra lingua, pur con un -delizioso- accento francese. Lei ha letto i miei libri precedenti ed ha ricevuto per posta aerea anche "Storia di Silvana".( Questa idea del libro che viaggia in aereo non è male per un futuro racconto......Un'altra copia è partita per una coppia di amici che vivono ad Adelaide in Australia, ma non ho notizie se si arrivata, e sono un pò preoccupato).
Dunque è stato naturale pensare a una traduzione in francese di alcuni brani del libro, scelti in totale autonomia da Céline.
Sono due momenti particolari della storia. Nel primo la protagonista è alle prese con uno specchio, nell'altro Silvana riflette amaramente su uno dei sentimenti da lei meno sperimentati.
Comprendo poco la lingua francese, ma scorrendo il testo tradotto ho provato egualmente una sensazione di grande intimità. Ciò deriva dalla profonda assimilazione delle parole che ho utilizzato nel mio racconto, e che ormai sono parte di me. Come dire: se sperimenti un'immagine o uno stato d'animo così fortemente e li fissi con le parole, poi li sentirai tuoi anche in una lingua straniera.
Desidero ringraziare molto Céline Le Berre per questo regalo così prezioso, e attendo i commenti graditi di quelli di voi che parlano francese.....


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p 95-96 "Il y a de ça plusieurs années, j'ai été avec cet homme.Pas longtemps, deux semaines, peut-être trois. Une fois dans la voiture après le cinéma et la nuit d'un samedi, chez lui.Quelques coup de téléphone, une promenade en centre ville et rien de plus. Ma joie appelée "avenir" brusquement privée d'un avenir. Puis, mes années passées en compagnie du souvenir, veuve sans jamais l'avoir épousé.Que l'amour est une petite chose. Je parle de l'amour des étreintes, de la respiration haletante, des liquides, des bouches.Un vol, un cadeau, un soupçon de sel.Un voleur, un voleur de futur, mais pas uniquement. La personne que tu as eue en toi, même une fois seulement, continue de rester avec toi et si cette personne te rencontre au bout de vingt ans au bar de la gare, elle se sent en droit de te parler sans te regarder dans les yeux.Et oui, l'amour n'est rien d'autre que ça : une petite chose qui n'est pas sérieuse comme le travail, ni patiente comme un dimanche après-midi, ni fidèle comme un chien, ni distrayante comme une amie.L'amour ne surprend même pas : la maladie, elle, au combien elle te surprend." Capitolo 19 (p42-43) Le Miroir "Quand elle rentra, il faisait compètement nuit. Elle laissa son vélo derrière la maison et, à peine arrivée, elle mit la soupe à réchauffer.Elle fixai la flamme violacée du gaz, plongée dans ses pensées, en particulier les évènements de la journée. Elle monta les escaliers et entra dans sa chambre pour se changer. Sans allumer la lumière elle retira sa jupe et son chandail et chercha en vain dans le noir son pantalon de jogging. Alors elle alluma la lampe de la table de nuit et une faible lumière jaune colora la petite pièce.Elle se retourna distraitement vers le miroir de la commode et vit son image qui s'y refletait. Des bras maigres, avec un morceau de peau qui pendait sous le coude, des épaules étroites et voûtées, et une espèce de pli à la place des seins dans le décolleté de son pull en V. Au-dessus de ce minuscule échafaudage humain, se trouvait l'écheveau volumineux et informe de ses cheveux, dans lequel disparaissaient les traits légers de son visage. "Voilà comment je suis vraiment : moi je suis comme ça...". Elle parla toute seule à voix basse, en s'asseyant sur son lit. Elle demanda de l'aide au pouvoir qu'elle avait de comprendre les choses, et elle ne tarda pas à en recevoir un peu. Elle pensa que personne ne se voit jamais comme il est réellement et que tout le mond pense qu'il apparaît différemment. C'est notre imagination qui nous pousse fortement à croire que dans la réalité nous sommes comme ça. Et puis un jour on se regarde distraitement dans une vitrine et on ne reconnaît pas l'homme voûté ou la femme aux cheveux blancs qui nous regardent et avec lesquels, de toute façon, on ne veut rien avoir en commun. Mais dorénavant ils nous suivront de près, quelque soit l'endroit où nous irons. Elle se rappela alors les mots de Marina, son sentiment douloureux et mélancolique pour les filaments de beauté restés accrochés aux années comme des arbustes secs sous un pont. Elle se regarda à nouveau dans le miroir. Elle éteignit la lumière pour se laisser engloutir par l'obscurité avec la poupée blanche assise sur le lit derrière elle. Elle se leva pour ouvrir la fenêtre et dans la chambre entrèrent l'air frais et le bruit des grillons : son coeur recommença à battre légèrement."



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